Cascio, Corsini, De Vitis, Pierri, Troncanetti

Un altro numero speciale con libri di persone che conosco, vive, e che vogliono scrivere perché è la cosa che gli piace di più fare. Qualcuno ha un editore, qualcuno no; nessuno ha alle spalle un’organizzazione di marketing tale da, per esempio, far scrivere loro un articolo moralista ed ipocrita su un quotidiano tanto per diffondere il loro nome il più possibile grazie alle polemiche suscitate. Ma questo non conta nulla riguardo la loro qualità letteraria; non conta assolutamente nulla, in questo paese, chi è il tuo editore. Soprattutto se è “un grande editore”.

* Alessandro Cascio, Ditemi tutto sui baci, Lulu/UBV, 2012, pp.246, Euro 10.28, cm 14.8×21, copertina morbida con rilegatura termica.

La trama, per sommi capi.

Chicco Scacchi racconta la sua vita tra studi fatti e non fatti, specchi veri e falsi, amici o sedicenti tali, un genitore sì e uno no, pochi soldi e molta Palermo. Sarebbe il più classico dei bildungsroman se di vite non cene fossero più d’una, in ballo.

Fuori l’autore.

La pagina “bio e contatti” sul suo sito dice tutto quello che ha studiato e tutti i romanzi che ha scritto, quindi non dice niente, tranne una cosa importantissima: lavora del proprio. Cioè ci campa proprio, scrivendo. Mi pare – di questi tempi e in questo paese – già tutta una biografia.

La recensione in senso stretto.

Se non vi va o non vi piace ridere, potete evitare di leggere questo romanzo. Se non vi va di essere un po’ presi in giro in quanto lettori, abbandonando certe convenzioni tacite, potete evitare di leggere questo romanzo.
Siete ancora qui? Bene. Il romanzo, a suo modo, mette in discussione parecchi assunti taciti della lettura e del lettore. Qui Cascio si diverte parecchio – e si vede – e non nascondo che tutto ciò potrebbe essere fastidioso.
Per quanto però non vi piaccia questa parola, il romanzo – come ogni altra forma d’arte – ha una sua precisa economia. Se tutto quello che viene richiesto nel partecipare alla sua fruizione serve, senza avanzi né resti né promesse non mantenute, allora il romanzo non ha fallito.
Ditemi tutto sui baci non fallisce, perché ripaga esattamente di quello che costa. E non sto parlando di euro. La domanda centrale del libro viene risposta, e nella maniera più tipica del romanzo: parzialmente, elusivamente, obliquamente. Nel frattempo però sono state esauditi molti altri desideri, e forse la domanda che ci si faceva all’inzio della lettura non è quella che ci si pone alla fine. Tutto questo è un rischio, ovviamente; correrlo senza ipocrisie è uno dei meriti di questo romanzo.
Spero piaccia anche a voi.

Perché dovrei leggerlo.

Perché dei baci si fa sempre troppo poca esperienza.
Perché fa ridere.
Perché forse siete voi, ma forse siete quell’altro. E allora sarebbe il caso di prepararsi per tempo.

* Loredana De Vitis, Tanto già lo sapevo, ilmiolibro.it, 2012, pp.184, Euro 16.00, cm 15×23.

La trama, per sommi capi.

Le storie d’amore di Anna, da Alberto a Filippo, passando per altri uomini, molte città, una mamma, qualche amica. La trama però è continuamente interrotta da quello che Anna presume di sapere, o sente, o prova, o immagina, o aspetta. Quindi in realtà il racconto non riguarda le storie di Anna quanto la sua conoscenza di esse, il modo che hanno queste storie di formarsi dentro di lei rispetto a ciò che accade fuori di lei. La miscela di tempi e stili, che disorganizza la trama, è inevitabile; essa serve anche a formare il quadro ironico – come sempre dev’essere, in un romanzo – della presunta conoscenza a priori espressa nel titolo.

Fuori l’autore.

Loredana De Vitis insiste a scrivere malgrado il resto della sua vita provi a distrarla con altro. Sarà probabilmente per questo motivo che continua a mietere premi e successi con scritture tutte rigorosamente autoprodotte. Non avere un editore deve portarle bene, ma può darsi anche che lo faccia apposta – proprio come scrivere. Vive perlopiù a Lecce.

La recensione in senso stretto.

Non ditemi che non vi avevo avvertito: questo testo è una prova. De Vitis non ha alcuna remora a tentarle tutte, con il linguaggio: interpolazioni di discorso diretto e indiretto, cambi di punto di vista, versi e prosa, ripetizioni e ridondanze, eccesso di punteggiature, mancanza di punteggiatura. Se proverete delle sensazioni tattili, leggendola, non vi preoccupate, è proprio la sensazione giusta. La sua scrittura a volte è viscida, a volte scorrevole, ora ruvida ora vellutata – ha qualcosa del materiale ancora non sistemato, non sgrossato. Quindi non troverete i soliti appigli necessari alla comprensione: ci sono pochi nomi – e quasi mai quando servono – poche circostanze. Com’è giusto però nei romanzi, l’architettura che regge questo linguaggio è solidissima pur accuratamente camuffata da struttura immateriale e leggera. Infatti, pur senza appigli grafici e con poche interruzioni paratestuali, potete tranquillamente smettere e riprendere a leggere Tanto già lo sapevo quando volete. Sarà lui a ricordarsi di voi, da qualche parte.
Questo è possibile perché il romanzo, tra le altre cose, indaga a fondo il concetto di presenza. Quel concetto che cerchiamo di esprimere con locuzioni come “misteriosa presenza”, una specie di meta-stato, un’atmosfera che induce a sentire senza vedere né materialmente toccare. Anna ha a che fare soprattutto con presenze – la madre, il lavoro, la chiesa, le piante, il denaro, gli uomini, le donne – e con le loro contaminazioni, che permeano ambienti e linguaggi dei quali vorrebbe fare a meno, oppure che vorrebbe sentire di più – ma non può. Il romanzo si può leggere anche come una progressiva indagine e conquista delle presenze più desiderate, la materializzazione dei desideri di Anna e la scomparsa di ciò che Anna non vuole – e un piccolo manuale sul “metodo” per realizzare, e per parlare de, il desiderio.

Perché dovrei leggerlo.

Perché Tanto già lo sapevo non ha paura. E’ un testo così sincero che potrebbe apparire privo di finzioni – mentre invece, com’è necessario, ne ha, ma non sono inganni. Fingere vuol dire anche plasmare, modellare, ed è quello che Anna cerca di fare con le cose che vuole, dopo aver capito cosa vuole.
Perché per una volta si può gustare un lavoro ben fatto nel quale il processo editoriale non ha portato nessun tipo di uniformità a un genere o a un “prodotto editoriale” già presente. Di questi tempi, è un grosso rischio; ma se va bene, anche un valore aggiunto.

* Elisabetta Pierri, Un insolito tepore autunnale, Milano, Ink, 2013, pp.165, Euro 14.00, cm 21×14, copertina in cartoncino con risvolti, carta semiruvida di buona qualità.

La trama, per sommi capi.

Nello spazio di poche settimane, più o meno intorno alla classica “ottobrata” romana, alcuni personaggi scopriranno di se stessi cose che non sapevano, o non volevano, desiderare. E lo faranno attraverso esperienze erotiche necessarie quanto inevitabili – col senno di poi. Il problema è il senno di prima.

Fuori l’autore.

Elisabetta Pierri esordisce con questo romanzo grazie a un editore che – opinione del tutto personale – ha speso bene il suo coraggio e il suo intuito professionale. E’ un’attivista femminista, e questo suo modo di vedere il mondo è tanto importante nell’architettura del romanzo quando invisibile. Si gode solo dei suoi effetti.

La recensione in senso stretto.

Quello che ci si aspetta in un romanzo erotico – o classificato come tale quando lo trovate in libreria – è l’erotismo. Quello che non si sa prima di leggere è come questo erotismo sarà usato nel romanzo.
Questo romanzo risponde, in uno dei modi possibili, alla domanda circa il rapporto tra sesso e amore, e lo fa nel modo tipico del romanzo: con ironia. La forma e lo stile scelti da Pierri sono parte essenziale di questa risposta, che necessita di un parte di finzione, di una sottile autoironia, necessarie a denunciarsi come finzione – l’unico modo per fornire una risposta possibile tra le tante, a tanti. Questa componente tiene insieme le parti, la contemporaneità, le vicende – molte e di molti personaggi – che senza sarebbero solamente tranches de vie, e invece così sono una forma, un romanzo leggibile e coerente; una totalità si diceva una volta.
Il sesso, nel romanzo di Pierri, non è mai superfluo. Arriva quando serve, spiega quanto basta, immagina il necessario, collega e supera gli elementi narrativi, ed è assolutamente legato ai caratteri dei personaggi coinvolti, che senza di esso apparirebbero monchi, incompleti. Questa precisa scelta di mezzi espressivi permette non solo al romanzo di essere ben più di quello che il genere erotico permetterebbe, ma anche di usare l’elemento erotico non solo come soggetto del romanzo, ma come suo elemento architettonico, senza il quale il romanzo non ci sarebbe. Ciò che racconta Pierri non potrebbe essere scritto come una storia senza erotismo. Perché senza, la storia di Un insolito tepore autunnale non esisterebbe proprio, né potrebbe tentare di rispondere alle domande esistenziali che si pone e che pone al lettore.

Perché dovrei leggerlo.

Perché raramente il sesso è stato raccontato così felicemente e così necessariamente.
Perché un romanzo erotico dovrebbe essere comunque prima un romanzo, e questo lo è.
Perché la scrittura di Pierri non regala niente di più di ciò che serve, e tutto quello che vi sembra mancare è – come si dice in questi casi – tutta un’altra storia.

* Luana Troncanetti, Agrodolce, 2013, pp.49, Euro 2.68, formato Kindle.

La trama, per sommi capi.

Dieci racconti che giocano col lettore, somministrandogli un finale a sorpresa che cambia le informazioni mancanti e che sono state solo immaginate. Non c’è sempre un lieto fine – sennò che sorpresa sarebbe?

Fuori l’autore.

Luana Troncanetti vince premi per il suo umorismo e continua a divertirsi scrivendo ovunque. La cosa più divertente sta nel fatto che è la prima a ridere di sé, senza pensare che sia una gran qualità: ci crede proprio che, come scrittrice, fa ridere.

La recensione in senso stretto.

Anche se esiste un monumentale e divertentissimo precedente come Il libro de Kipli, ciò non vuol dire che il piacere di essere ingannati scoperto nell’ultimo paragrafo sia scomparso dai lettori. Agrodolce spinge l’inganno non solo agli elementi formali, ma anche a quelli sentimentali coinvolti nei racconti. Ciò che viene colta di sorpresa non è tanto la nostra attesa di un finale causalmente legato a quanto letto, ma la nostra abitudine a congetturare le possibilità della storia prima di leggerla seguendo solo il nesso causale, e non quello emozionale. Meravigliarsi è conoscere, soprattutto se riguarda i nostri sentimenti: Luana Troncanetti ci sottopone dei veri e propri test per la nostra sensibilità. Assunti uno ogni tanto possono essere un gradevole esercizio per quella capacità di comprensione che una vita piena di stimoli quanto povera di profondità spesso lascia infiacchire.

Perché dovrei leggerlo.

Perché è divertente scoprire quanto diamo per scontate assunzioni logiche che, invece, non hanno alcun fondamento. Quando quelle assunzioni riguardano la nostra capacità di comprendere una storia, è anche molto istruttivo.

* Cristiano Corsini, Berlino. Ombre e luci viste da fuori, Roma, Homolegens, 2013, pp. 64, Euro 25.00, cm 21×29.7, copertina e carta plastificate di ottima qualità.

E’ un saggio su…

Berlino, la città e la sua storia, fotografata e raccontata da un non berlinese. Con la scusa di essere a metà tra libro di fotografie e libro di viaggio, il testo si permette – finalmente! – di non dire nulla riguardo le bellissime immagini che ospita, e di prendere a scusa la materia della fotografia, la luce e l’ombra, per raccontare la città. Il libro quindi è anche un riuscito tentativo di far coesistere parole e immagini senza ridurre le prime a didascalia delle seconde.

Recensione.

Corsini ha di fronte un compito quasi impossibile, cioè scrivere una storia di una delle città più importanti del mondo. Lo risolve nell’unico modo tollerabile e non ipocrita: si documenta sulla sua storia della città, quella che ha sentito e fotografato. Il risultato è una scrittura documentaria ed emozionata insieme, sensibile nel riattualizzare ciò che è già avvenuto, riportando tutto su un piano di presenza che è poi il miglior trattamento possibile (forse l’unico rispettoso) delle tracce – in senso benjaminiano – di cui Berlino è piena. Potremmo definire questo libro come un libro d’esperienza. Tenta di trasmettere il vissuto per mezzo di immagini e testo, senza chiudere però il passaggio sentimentale alla propria esperienza, ma confidando nella volontà di chi legge di volerne saggiare le potenzialità non ancora espresse. Nella speranza di riuscire ad essere più chiaro, questo libro è per chi “ritorna” a Berlino – quindi per chi si trova a ritornare in qualunque altra città. E’ il libro di ciò che, lasciato alle spalle, sappiamo che ritroveremo davanti a noi, ma non più lo stesso.

Fuori l’autore.

Cristiano Corsini è ricercatore in Scienze della Formazione all’Università di Catania.

Perché leggerlo, oltre che per il suo argomento?

Perché è un interessantissimo caso di libro di diversi generi – o di nessun genere. Parte da un’idea di fotografia, ma non è un libro di fotografie; c’è la storia di Berlino, ma certo non è un libro di storia. Il piglio è narrativo, ma non ci sono finzioni; lo stile è documentaristico, ma non c’è nulla da scoprire. Se vi va, chiamiamolo “esperienziale”: riesce a descrivere una esperienza in modo che sia possibile adattarla a tutte le esperienze di scoperta di una città. Non è poco.
Perché ne ho scritto l’introduzione – e non ripetermi in questa recensione è stato faticosissimo.

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