Bertucci, Parissi, Iovane, Cascio, Carabba

Numero molto speciale: libri editi da persone che conosco. Nella mia libreria ci sono anche queste cose perché ho la fortuna non credere che tutta la buona letteratura sia quella stampata, o stampata da un grande e famoso editore. E più leggo cose inedite, più me ne convinco; esistono bellissimi libri inediti che aspettano un editore non dico intelligente ma almeno coraggioso. Anche questi però, come gli altri, sono libri più o meno introvabili – nella forma cartacea – a meno di ricerche sul web o fortunati incontri in bancarella. Stavolta vi ho risparmiato i saggi, qui ci sono solo romanzi e poesia. Ma può darsi che non vi dica sempre così bene.

Maurizio Bertucci, Il palazzo color arancio, Pavia, I fiori di campo, 2003; 52 pp., euro 7,25, cm 16,5×12, copertina in cartoncino rigido, rilegatura in brossura cucita, carta semiruvida di buona qualità.

La trama, per sommi capi.
La vita di Andrea Josè Aguilar, raccontata in pochi episodi ma inseguita in tutte le sue sensazioni. In mezzo amore, morte, strade e un palazzo color arancio.

Fuori l’autore.
Maurizio Bertucci vive adesso fuori dall’Italia, e di questi tempi è quasi un merito. Ottimo studente, splendido centrocampista, amico sensibile. Speriamo, per lui e per noi, che non gli sia passata la voglia di scrivere solo perché vive in un paese che gode di ottima reputazione.

La recensione in senso stretto.
Questo piccolo testo è la prova – se ce ne fosse ancora bisogno – che i romanzi non si giudicano dalle dimensioni. C’è la descrizione di un mondo, una rincorsa bisognosa di totalità, che caratterizza queste cinquanta pagine allo stesso modo della monumentale Recherche. E anche se, a un occhio distaccato, potrà sembrare che non si “racconta” niente, non può sfuggire che la domanda di questo libro non riguarda gli avvenimenti quanto la nostra lacunosa possibilità di ricordarne la realtà. Ancora una volta un romanziere si pone la questione dell’esperienza – cos’è “un’esperienza”? – e ci dà una risposta. A noi rimane la libertà di farne tesoro.
Stilisticamente la prosa di Bertucci ha la felice tendenza a condensarsi in versi; si tronca, si piega, si aggiusta anche tipograficamente seguendo la sensibilità, cercando di conservare la nitidezza del sentito a scapito della purezza del detto. Non ci perdiamo, noi lettori, assolutamente niente; la ricerca dell’autore, la ricerca di Andrea Aguilar, sono subito le nostre senz’altro patto che proseguire nella lettura.
La copertina, e l’autore, ci annunciano “frammenti”; la finzione romanzesca è in chiara fin da subito, perché qui c’è in gioco il tutto, altro che frammenti. Come e se questo tutto arriverà non è però dato sapere; i romanzi, si sa, non possono certo sostituirsi alla vita. Al massimo ce ne fanno accorgere.

Perché dovrei leggerlo.
Perché abbiamo tutti un palazzo color arancio, da qualche parte. Perché l’importanza di una scrittura non la fa l’editore; quest’ultimo può accorgersene ma anche ignorarla. E’ un errore che sta ai lettori riparare.

Mia Parissi, VA:LE, http://www.blockmia.it/lulu.html; 216 pp., gratis, formato PDF.

La trama, per sommi capi.
Due donne s’incontrano per caso e cominciano un viaggio insieme, dal nord al sud Italia. Alla fine del viaggio le loro vite saranno stravolte: la donna razionale e ordinata lascerà le sue confortanti abitudini dopo aver fatto i conti con un padre freddo e indifferente; la donna ribelle e scanzonata dovrà affrontare le sue radici ritornando a casa, ma ne rimarrà schiacciata. Sarà molto difficile da leggere, se non vi piace rimanere coinvolti. Non dite che non v’avevo avvertito.

Fuori l’autore.
Mia Parissi ha scritto, ha sceneggiato, ha recitato, e con tutto ciò non le è ancora passata la voglia di condividere, anche nei suoi corsi. Non so immaginare, per ora, un complimento più grande. Come se non bastasse, non ha difficoltà a volere tutto e il contrario di tutto, e a desiderarlo in chi incontra anche solo virtualmente.

La recensione in senso stretto.
Due personaggi e una lunga strada sono i più vecchi ingredienti romanzeschi, forse. Da quando un cavaliere della Mancia ha deciso di smettere di leggere e di andare per il mondo, accompagnato da uno scudiero assurdamente fedele e da un’anima piena di astratto idealismo, la letteratura s’è popolata di coppie alla ventura. Qui le protagoniste sono due donne; eh, s’è già visto tante volte. La meta è il Salento; uh, quasi non ne possiamo già più di pizziche e terra rossa. I problemi, però, sono altri. Gli elementi narrativi più superficiali, scontati anche per un lettore non particolarmente accanito, qui servono per far rimanere attaccati a qualcosa di banalmente quotidiano mentre, appena sotto la superficie, si scontrano forze titaniche. Il vissuto con un padre freddo e arido, la lotta per la propria identità sessuale, lo scontro con l’autorità della vita pubblica, la distruzione di ogni immagine stereotipata di sé; la domanda – che le due protagoniste non si fanno mai ma che si riconosce dalla loro ricerca – è: sono un corpo oppure ho un corpo?
Mia Parissi non esibisce mai direttamente lo svolgersi di questo tremendo dilemma, ma è chiaro fin da subito che in ballo, per Anna e Tessa, c’è subito tutto il loro mondo, così com’è filtrato, schermato, adattato per il loro corpo. E’ la scommessa più grande che sia dato fare, il gioco più rischioso al quale si possa partecipare. Il linguaggio di VA:LE è in continua tensione per dire quello che non si può dire, per provare a indicare quello che può essere solo sentito. Questa, invece, è la scommessa del romanziere.
Era da tanto che un romanzo non mi faceva piangere. Sarà perché Mia Parissi è brava a far parlare i sentimenti e non i sentimentalismi, sarà perché l’ho letto casualmente nei luoghi nei quali è ambientato, sarà perché dobbiamo tutti fare i conti con la nostra origine; non so di preciso. Ma ne sono contento. C’è ancora una scrittura che commuove senza banalità. Commuove con la forza, non con l’empatia; non pizzica nessuna corda interiore, ma smaschera l’ipocrisia dei sentimenti vuoti.

Perché dovrei leggerlo.
Per continuare a meravigliarsi di come funzionano bene le vecchie trame, quando le usa chi ha qualcosa da dire. Perché capire se siete davvero in grado di vestire, qualche volta, i panni altrui. Last but not least, perché è gratis. Almeno per ora.

Antonio Iovane, Ti credevo più romantico, Siena, Barbera, 2006; 384 pp., euro 16,90, cm 14×21, copertina rigida, rilegatura in filo, carta semiruvida di buona qualità.

La trama, per sommi capi.
Un comico televisivo vecchio e arrabbiato minaccia una strage. Mentre cerchiamo di capire il perché del suo gesto spettacolare, ci passa sotto gli occhi la storia italiana degli ultimi quarant’anni, vista dalla televisione. Cioè vista con quello stesso strumento con il quale anche noi abbiamo visto quella storia. Gerry Bellotto è un personaggio spregevole e non è possibile salvarlo per quanto se ne possa avere pietà. Ma se i suoi occhi sono i nostri, se la sua realtà è la nostra, sarà ben difficile capire in cosa siamo migliori di lui. Buona fortuna.

Fuori l’autore.
Antonio Iovane è costretto a fare il giornalista, non potendo (ancora) vivere della propria scrittura. Ha scelto la radio per svolgere questo lavoro, e speriamo che il mestiere non ne rovini troppo le doti letterarie. Mentre lo sentite a Radio Capital, ricordatevi che la sua realtà è un’altra, e migliore di come sembra. Ricordatevene anche se e quando avrete la ventura di conoscerlo.

La recensione in senso stretto.
E’ piuttosto difficile parlare di un romanzo che vuole, tra le altre cose, denunciare l’effetto della televisione sul linguaggio e sulle abitudini dei suoi ossessionati spettatori usando quello stesso linguaggio. E’ stato detto, infatti, che in questo romanzo “la narrazione diventa presto ripetitiva, le battute del comico non fanno mai ridere e il suo atteggiamento di disinteresse verso tutto quello che non sono le gag di Jerry Lewis, risulta scontato. I dialoghi, poi, celano sempre una qualche fastidiosa massima, un capovolgimento della realtà, una visione della vita, che dovrebbe stupire e illuminare, ma, più spesso, non fa che irritare”. Tutto vero: ma tutto questo è esattamente la voluta architettura del romanzo. Come il buon barone di Münchhausen, questo romanzo vuole salire più in alto tenendosi per i capelli; ma per un romanzo i paradossi non sono mai stati un problema. Forse lo sono per i critici e per i recensori.
Iovane non ha paura di giocare pesante, e costruisce un classico bildungsroman – cosa che già di suo, nel XXI secolo, è un bell’atto di coraggio – e affidandosi a questa consolidata struttura narrativa si prova nella specialità romanzesca per eccellenza: scrivere d’altro. Ecco che troviamo qui anche una succinta storia della televisione italiana, e del suo pubblico; anche una storia della misera deriva linguistica del nostro paese; anche una possibile risposta a una domanda vecchia quanto il romanzo di formazione. Come e quando si diventa adulti? Gerry Bellotto ci dà la sua risposta e, cosa piuttosto inquietante, volenti o nolenti la fornisce a tutta la generazione che si rivede con lui nel teleschermo. A voi decidere se vi piace.
Il linguaggio di Iovane è volutamente pirotecnico, a volte frenetico, insomma: “televisivo”. Anche qui il romanzo rischia grosso, perché va bene giocare sulla differenza tra ironia e umorismo, ma farlo appoggiandosi a un personaggio sgradevole può essere fonte di fraintendimento; leggere irritandosi non dovrebbe durare troppo. Tutti siamo migliori di Bellotto, nessuno si sognerebbe di approvarne tutte le mostruisità, ma quando l’identificazione fa capolino, chi si sente abbastanza coerente da voler ancora difenderlo? O da ammettere che non abbiamo mai avuto un desiderio simile a un suo sogno, a una sua impresa, a un po’ della sua vita?
Rimane comunque il gusto di aver letto un’opera terribilmente promettente. Non possiamo sapere se Iovane scriverà sempre così, se quello che abbandonerà sarà un prezzo adeguato per quello che acquisirà, e in cosa le sue pagine saranno ancora riconoscibili. Lasciamo fare al romanzo. Lui, sicuramente, non finirà di stupirci.

Perché dovrei leggerlo.
Perché si pensa e si ride insieme; già sono possibilità rare in un romanzo, quando capitano insieme bisogna approfittarne. Perché i libri che analizzano il “fenomeno” televisione sono di una noia tremenda; un romanzo può permettersi una felice sintesi impossibile per qualunque altra scrittura.

Alessandro Cascio, Touch and splat, Cesena, Historica, 2009; 110 pp., euro 5,50, cm 14×21, brossura leggera, carta ruvida di media qualità.

La trama, per sommi capi.
Cosa c’è di meglio per sfogare le frustrazioni di una vita mediocre di un bel gioco di ruolo nel quale ammazzare (per finta, ovviamente) le persone? Magari proprio quelle che detesti davvero? In questo parco giochi volutamente finto, i protagonisti fingono di ammazzarsi a vicenda continuando in uno spazio finto quei rapporti finti che coltivano nella realtà. Come nelle migliori storie finte, però, la realtà supera la fantasia; e ci sarà un giallo vero, un morto vero, un colpevole vero, un vero finale a sorpresa. Come nelle più classiche storie di finzione.

Fuori l’autore.
Alessandro Cascio vuole fare le cose da professionista; e qui in Italia, si sa, è difficilissimo. Lotta, suda, sbraita e corre come un matto per cercare di fare un mestiere che qui è deciso nella maggior parte dei casi da evidenti incompetenti, a tutti i livelli. Lui riesce ancora a non prendersi sul serio: è l’unico modo, immagino, per non farsi contaminare dalla feccia che è costretto a frequentare per campare. Aggiungo che “è bello bello in modo assurdo” (cit.), cosa che lo lancerebbe senza problemi in carriere che disprezza. Almeno credo.

La recensione in senso stretto.
Touch and splat è una lettura rischiosissima. E’ molto facile confinarlo in una letteratura trash, o pulp, o qualche altra etichetta molto funzionale a evitare di impegnarsi in una critica seria. Il bello è che sembra costruito proprio per questo.
Quindi rischio anche io e dico: non è niente di tutto questo. Touch and splat è epica. Sissignore, proprio epica, quella di Omero, di Achille, Ulisse, Agamennone, Paride, il cavallo di Troia e gli dèi dell’Olimpo; ma epica dei nostri giorni, un’epica che non è più possibile in questo mondo e che quindi è diventata romanzo.
In fondo l’accostamento è evidente: i protagonisti giocano in un’ambiente western, e il western è il genere che per ultimo ha tentato di ricopiare il mondo dell’epica classica. Eroi evidentemente schierati, tipi psicologici tagliati con l’accetta (“Il buono il brutto il cattivo”, tanto per fare un esempio), natura indifferente, sentimenti puri e manifestati senza fronzoli. Però… però qui tutto questo è solo un gioco. Una finzione nella quale (finzione nella finzione) un romanzo parla di un gioco fatto come se fosse serio e che invece serve solo a “sfogarsi”. Come se sfogarsi servisse a qualcosa.
Sì, perché mentre Achille non aveva che da chiedere agli dèi quale fosse il suo destino e poi seguirlo, libero e felice di ammazzare in virtù di un disegno che non ha certo creato lui, nel gioco epico che si accingono a vivere i nostri eroi loro non hanno nessuno da cui avere una risposta. E persi con la loro psicologia malata di desideri irrealizzati, le loro armi a inchiostro non gli daranno che per un breve attimo l’illusione di vivere ciò che vogliono davvero. Gioco nel gioco, Alessandro Cascio si diverte a mescolare tutti i linguaggi, tra battute folgoranti, analisi sociologiche degne di ben altri pulpiti, calchi da film, omaggi, plagi, semplici stronzate e illuminazioni proustiane. Ma questa è una finzione: se Omero con la sua chiacchiera didascalica aveva da insegnare e tramandare, qui non c’è da illudersi; nessuno capirà niente. Anche perché là, nella Grecia che fu, nella battaglia, tutti sapevano cosa accedeva agli altri – nei momenti più cruenti una provvidenziale divinità arrivava a portare conforto o notizie fresche. Qui neanche l’essere liberi di spararsi addosso fa fare un passo avanti verso un comune sentire.
Nessuno comincerà né continuerà  a parlare “veramente” con nessuno: ma ormai siamo nell’età del romanzo, e non può finire tutto così, in un punto qualunque, come poteva permettersi Omero. Qui c’è un colpevole, un finale, e pure una morale; ma è tutto fatto per gioco, evidentemente, e sono solo artifici inutili. Un senso, se c’è, è arrivato ben prima della fine. Se non ve ne siete accorti, posso lasciarvi con un consiglio: “al cuore, Ramòn!”. E’ così che il romanzo v’inganna: confida nella vostra mira.

Perché dovrei leggerlo.
Perché ogni tanto è bene mettersi alla prova con un romanzo fortemente “di genere”, tanto per capire l’inutilità delle divisioni in generi. Perché non ci si deve dimenticare che la letteratura serve a sentire quelle esperienze che avremmo una gran difficoltà a vivere. Perché un giorno possiate vantarvi di aver letto Alessandro Cascio quando “ancora costava cinque euro”.

Inserto – Poesia

Carlo Carabba, Gli anni della pioggia, Ancona, peQuod, 2008; 60 pp., euro 7,50, cm 11×16, copertina in cartoncino con bandelle, brossura a filo, carta liscia di media qualità.

Mi pare di averlo già detto altrove, ma comunque è il caso di ripeterlo: mentre in italiano abbiamo solo la parola “nostalgia”, il tedesco distingue heimweh come la nostalgia per qualcosa che si è vissuto ma ora è lontano, e con sehnsucht la nostalgia per qualcosa che non si è mai vissuto. Carabba riesce qui a toccare i due significati in versi in italiano nei quali solo a furia di inutili astrazioni si distinguerebbero le due nostalgie, mentre il loro consuonare crea uno spazio per un linguaggio diretto e naturale tra un uomo e la memoria della propria esistenza. Come se fosse semplice. Allo stesso modo, è evidente che queste poesie parlano anche e sempre della lingua; parlano del suo potere di allusione, pronto a sprigionarsi se solo si ha la sensibilità di lasciar perdere la volontà di dire qualcosa per liberare la possibilità di far parlare la propria lingua, da sé e di sé. Non c’è altro argomento, qui, che Carlo Carabba: ma non c’è traccia di oggettivazione nella sua intenzione linguistica; quindi – come sempre nella migliore poesia – la poesia dice se stessa, dice la lingua e tutto il dicibile come se fosse lì pronto a farsi vedere da tutti e per tutti. “Come se”: Mario Desiati giustamente parla di questa come di “una poesia che inganna”. Non perché costruisce una finzione, come farebbe la prosa, ma perché può illudere che senza particolare sforzo e lavoro si possa fare poesia, come in certi musei sentiamo dire davanti a un quadro astratto: “questo potevo farlo anche io”.
No, la poesia di Carlo Carabba la può fare solo lui. Se, come faccio spesso, accosto opere poetiche a discorsi sul romanzo, è sempre perché questo impari qualcosa da quelle. La distanza con la quale questa poesia non è fattibile da chiunque è inversamente proporzionale alla vicinanza con la quale ci dice qualcosa di chiunque; e il romanzo dovrebbe avere più spesso questo dono, questo antidoto al veleno di una ipocrisia dilagante. Ci riesce sempre meno.

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